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Alberto Mascia – L’avvocato, l’assistente di parte e il mediatore: una deontologia 3D

È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei” (Jean-Paul Sartre)

Parlare di deontologia, in generale e con particolare riferimento alla mediazione, è quanto mai attuale e significativo, per tanti risvolti applicativi e operativi, tutti legati alle figure professionali che a vario titolo sono tenute a osservare determinati principi e presenziare con correttezza e senso di responsabilità al tavolo della mediazione. Figure che identificano ruoli, poteri, azioni, comportamenti, rilevanti nel processo comunicativo e negoziale.

Deontologia come complesso di norme comportamentali che disciplinano l’esercizio di una professione, come abito che i professionisti devono indossare prima, durante e dopo l’incontro della mediazione. Deontologia per l’avvocato che accoglie le istanze di giustizia del proprio cliente; deontologia dell’assistente-avvocato che supporta le argomentazioni, le ragioni, gli interessi, le necessità dell’assistito in chiave negoziale durante lo svolgimento della mediazione; deontologia del mediatore-avvocato, tenuto ad osservare i principi e le regole di buona condotta, preparazione, correttezza, propri dei Codici deontologici dell’organismo presso cui è accreditato e del Codice deontologico forense, come recentemente modificato.

Potremmo parlare, dunque, di una deontologia 3D, sulla falsariga della tecnologia 3D per la visione di film mediante l’utilizzo di speciali occhiali, in grado di dare qualità e senso di realtà (toccata quasi con mano) o di futuribilità alle immagini proiettate su uno schermo o in un cinema.

Una deontologia che interessa il triplice ruolo dell’avvocato, chiamato ad espletare il proprio incarico con profonda serietà e tutela degli effettivi bisogni del cliente. Triplice è il ruolo, triplice è il momento in cui occorre dare contenuto pratico ai doveri deontologici.

Senza scendere nel dettaglio e senza citare tutti gli articoli che riguardano tali doveri, sotto il profilo operativo è quanto mai essenziale prestare attenzione all’osservanza degli stessi «prima», «durante» e «dopo» il procedimento di mediazione.

Il «prima»: il rapporto con il cliente e la relativa informativa sulla mediazione. Un momento di grande rilevanza, troppo spesso ridimensionato a mero adempimento formale (sulla falsariga dell’informativa privacy, di cui al D.lgs. 196/2003), a partire dal quale si decide se indossare o meno seriamente gli occhiali della deontologia e cambiare (e far cambiare) prospettiva, puntando ad una visione di insieme, e non solo ad un più immediato, e per certi versi semplicistico, approccio litigioso. La scelta del legislatore è stata quella di prevedere per la sola categoria professionale dell’avvocato, un preciso obbligo di informare, all’atto del conferimento dell’incarico, il proprio assistito della possibilità di esperire il tentativo di mediazione finalizzata alla conciliazione, con tutte le agevolazioni di cui agli artt. 17 e 20 D.lgs. 28/2010, nonché della necessità di farlo, in specifiche ipotesi contemplate all’art. 5 dello stesso decreto, perché condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Occorre notare come le parole del legislatore siano chiare, se guardiamo al testo, ma presuppongono un atteggiamento, una lettura, una applicazione di tali parole e delle relative regole, che non può essere soltanto imposta, ma veicolata all’interno degli stessi ambienti dell’avvocatura cui i professionisti appartengono. Dare senso pratico all’informativa scritta, chiara, ispirata alla trasparenza, significa educare l’avvocato in primis ad una deontologia che non sia più mera forma, ma sostanza, che punti alla qualità dei comportamenti, che si fondi su azioni di professionisti aperti al confronto e al cambiamento, nient’affatto abituati a un concetto unidirezionale (e anacronistico) di giustizia o schierati per la difesa di interessi di casta o propri; professionisti favorevoli a una modernizzazione del sistema giustizia fondato su una scelta consapevole, da parte dell’assistito, dello strumento adatto a gestire e risolvere i propri problemi, le proprie criticità e conflittualità, aprendo la porta (multi-door) che più e meglio consente di partecipare, di esserci, di far valere la propria voce.

Il «durante». Pronti, partenza e via. La mediazione entra nel vivo, l’incontro iniziale tra mediatore, parti ed eventuali assistenti, serve a dare ulteriore contezza di come gli occhiali indossati nella fase prodromica alla mediazione, siano assolutamente indispensabili durante il percorso che le parti e l’assistente intraprenderanno e nella fase decisionale. L’avvocato-assistente è davvero una figura centrale, seconda sola alla parte stessa, nell’intero procedimento di mediazione, in quanto sotto il profilo negoziale la sua presenza è in grado di aggiungere elementi di interesse o disturbo, di ricchezza o ostacolo, comunque da gestire e preventivare da parte del mediatore, senza condizionamenti.

I concetti più richiamati e utilizzati nel Codice deontologico forense, ma anche negli altri Codici deontologici delle altre categorie professionali, sono quelli di lealtà e correttezza. Basterebbe solo il richiamo a questi concetti per comprendere quanto sia necessario per il professionista indossare quegli occhiali e farli indossare al proprio cliente. Un richiamo che deve trasformarsi in comportamenti concreti, in cambiamenti di prospettiva, e non restare previsione di intenti, e dunque, con ogni probabilità, lettera morta. La visione di una categoria professionale non attenta a tali basilari regole è alquanto miope e destinata a fallire, specie se rapportata a contesti sovranazionali, in cui la ricerca di qualità e responsabilità è il motto da seguire.

La deontologia, calata nel pieno svolgimento della mediazione, è attenzione costante alle regole della corretta interazione con le parti, con l’assistente dell’altra parte, ma in un senso più propriamente costruttivo deve essere atteggiamento di profondo rispetto e dunque osservazione attenta e attuale di tutti i reali bisogni che il proprio assistito ha, dei suoi dubbi, delle sue perplessità, aspettative, priorità, necessità, che possono variare, e variano, anche più volte all’interno di una mediazione. Un atteggiamento di ascolto e sostegno attuale, finalizzato a creare e selezionare insieme, ove richiesto, le scelte negoziali da intraprendere, a spiegare i possibili contenuti, significati, implicazioni, anche giuridiche, che le stesse possono avere. In altri termini, un sostegno per una negoziazione responsabile.

Le responsabilità hanno senz’altro una funzione educativa, e dunque gli assistenti e gli assistiti (le parti) possono e devono maturare esperienza per educarsi i primi alla regola deontologica principe, quella del rispetto, e i secondi alla regola operativa principale in mediazione, quella della partecipazione attiva e della cooperazione.

Il «dopo». Il dopo, in mediazione, è strettamente collegato alla cultura delle mediazione ed assume diversi significati. Per quanto concerne l’avvocato, le previsioni del Codice deontologico in relazione alla fase successiva all’espletamento delle funzioni di mediatore e ai rapporti con una delle parti della mediazione appena gestita, sono piuttosto nette (si veda l’art. 55-bis). Deontologia in questo caso, però, non dovrebbe essere intesa soltanto come obbligo di non violare il Codice deontologico che prevede delle incompatibilità specifiche, bensì come insegnamento che dall’esperienza di mediazione gestita in qualità di assistente di parte si può e si deve uscire migliorati, aperti al dialogo e al confronto ogni qualvolta sia opportuno e necessario procedere in tal senso. La deontologia esige che venga maturata una piena consapevolezza dei doveri del Codice, che parla di lealtà e correttezza appunto, di fedeltà professionale, di dignità e decoro, di indipendenza (cfr. art. 10, a mente del quale ‘l’avvocato non deve tener conto di interessi riguardanti la propria sfera personale’), affinchè abbia un senso compiuto la previsione contenuta nel preambolo, che così recita: ‘L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona’.

La possibile mancata conoscenza dell’avvocato e del proprio assistito di tutti gli strumenti effettivamente utilizzabili in presenza di un conflitto, con una attenta informativa su vantaggi e svantaggi, possibili agevolazioni fiscali e costi effettivi di ognuno di essi, impedisce di avere un quadro chiaro su come muoversi, è causa di timori infondati, di frammentarietà, di valutazioni spesso affrettate e non veritiere. Ove ciò accada, a risentirne è la professionalità dell’avvocato e la sua correttezza, ma anche la giusta ricerca di giustizia dell’utente che ha il problema, il quale sempre più spesso vuole un abito tailor made, da scegliere e cucire secondo le proprie esigenze, i propri bisogni e le proprie priorità.

Si tratta essenzialmente di una questione di linguaggio e ad essere chiamati in gioco c’è la norma giuridica, da un lato, e l’autodeterminazione consapevole, dall’altro, che devono confrontarsi e combinarsi in un meccanismo tale che consenta ai diretti interessati, che vivono il conflitto, di scegliere come affrontarlo, gestirlo e risolverlo nei migliore dei modi.

Stefano Rodotà, insigne giurista, sul punto ha così riflettuto: “Proprio perché la premessa delle scelte individuali e collettive affonda in valori che possono profondamente divergere, e la decisione spesso è affare di coscienza, lo strumento del diritto non sempre è quello più adatto a risolvere i problemi che, anzi, possono essere resi più acuti dalla imposizione legislativa di una sola delle posizioni in campo”.

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